Pubblicato da: lefontaneromane | 6 gennaio 2012

Piazza Navona e le sue fontane: ecco il Natale di Roma

Da cittadina romana, mi ritengo estremamente di parte nelle mie considerazioni su Roma: ma poiché conosco persone che di questa città non fanno altro che lamentarsi e sbuffare, voglio prendermi la pena di ribadirlo: Roma è meravigliosa. Quando poi arriva Natale, se possibile, lo è ancora di più.

Le strade si colorano di mille sfumature e luminarie, l’aria si carica di allegria ed aspettativa, persino il traffico caotico per alcuni attimi sembra svanire. E’ vero, l’atmosfera natalizia riesce a rendere tutto più bello; ma dal Natale, Roma ricava un alone speciale. Se poi si è turisti fortunati, potrete anche incappare in uno degli incredibili inverni di Roma, normalmente caratterizzati da un gran freddo, forte tramontana e cielo turchino; grazie a questi elementi, Roma e le sue fontane acquisiranno un ulteriore valore aggiunto.

E’ tradizione prettamente romana celebrare l’arrivo del Natale, ma soprattutto dell’Epifania, con moltissime decorazioni in Piazza Navona. Già dai primi giorni di dicembre, l’antico stadio romano inizia a riempirsi di bancarelle, luci e palloncini, profumo di zucchero ( in molteplici forme: a velo, caramellato, filato …) e canditi; fino all’inizio delle ferie natalizie, comunque, non si ha spesso modo di farci una capatina. Magari si costeggia la piazza con l’autobus o a piedi, sempre affaccendati, ma avvertendo una sorta di richiamo. Ad ogni modo, gli impegni sono sempre tali e tanti, da impedire di entrare nella piazza.

Poi finalmente, le tanto agognate ferie arrivano. Magari durano tre giorni, questi sono solo dettagli. Ciò che importa è che una mattina ci si svegli stabilendo come obiettivo della giornata la famigerata passeggiata a Piazza Navona. Quando arrivate lì, il primo pensiero che vi sfiora è che, probabilmente, se un antico Romano avesse la fortuna (o la sventura?!…) di vedere il proprio stadio navale ora, non lo riconoscerebbe di certo e quasi sicuramente lo stesso Bernini rimarrebbe a bocca aperta.

  Piazza Navona si apre come una farfalla multicolore: la luce del sole esalta non solo le mille sfumature dei palloncini e della vecchia giostra, ma anche il candore delle fontane, mentre il Moro ed il Nettuno sono rispettivamente circondati da ciambelle fritte e Babbo Natale e Befana in slitta e il Rio della Plata sembra ripararsi non solo da Sant’Agnese in Agone, ma anche da una torma di delfini gonfiati che sta per franargli addosso. Percorrendo la piazza nella lunghezza, troverete bancarelle di dolci, inevitabile fermata, soprattutto ad una certa ora del mattino; proseguendo, incontrerete banchi con Befane e scopette scaccia guai, nonché tabelloni e cartelle della caratteristica tombola romana. Tutto è variopinto e caratteristico e l’atmosfera trova il suo punto più alto nel presepe e nella giostra collocati al centro della piazza: bambini ed adulti si affollano prima attorno al presepe, per osservarlo nei minimi dettagli e verificare se vi sono stati cambiamenti rispetto all’anno passato; come logica conseguenza, la piccola folla sciama verso la giostra, piena di macchinine, cavalli e carrozze.

L’aspetto più bello di questa atmosfera, a mio parere, è proprio il contrasto tra la placida presenza delle fontane e la colorata confusione dei banchi, poiché entrambi traggono benefici dalla reciproca presenza: le fontane regalano un tocco di eleganza ai banchi, mentre questi ultimi ravvivano l’antico candore degli illustri personaggi marmorei. Sarebbe impensabile considerare e visitare Piazza Navona senza pensare ai suoi addobbi natalizi, all’allegria dilagante, alle statue quiete che si guardano attorno, chiedendosi da dove scaturisca tutto quel chiasso e rassicurando i passanti.

Finita l’Epifania, nella migliore delle tradizioni e con molti rimpianti, Piazza Navona inizierà a spogliarsi dei suoi colori festosi, per dedicarsi di nuovo al chiarore delle sue fontane. Sono sempre belle, le tre fontane di Piazza Navona, in qualsiasi periodo dell’anno le si visiti; ma grazie al Natale, persino loro, che non ne avrebbero affatto bisogno, riescono ad incrementare il proprio fascino. Sono un po’ inquiete, ad ogni buon conto: dovrebbero essere ormai abituate, eppure ogni anno non si aspettano il baccano della giostra, dei banchi e dei bambini, così si guardano intorno leggermente spaurite. Incontrate il loro sguardo, rassicuratele: le feste natalizie sono una splendida occasione di stare insieme e festeggiare, ma le nostre fontane possono stare pur tranquille. Hanno un certo diritto ad essere almeno un po’ vanitose e dunque possiamo loro garantire che a breve torneranno ad essere le signore e protagoniste indiscusse della scena. Come, d’altronde, sono sempre state.

Silvia

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Pubblicato da: lefontaneromane | 7 settembre 2011

Se sei “Moro”, ti tirano le pietre…

Roma, 3 settembre 2011. Si accende la TV, si seleziona il televideo; un gesto distratto, quasi assonnato. Tra le tante notizie di guerra, malattie ed economia, ce n’è una di cronaca che ci colpisce.La Fontanadel Moro, in Piazza Navona, è stata fatta oggetto di un atto vandalico: infatti, le telecamere presenti nella piazza hanno ripreso un uomo che colpiva a sassate uno dei tritoni della fontana, mozzandone le orecchie. Le autorità stanno analizzando queste immagini e hanno già compilato un identikit che permetterà l’eventuale fermo previsto per quest’uomo.

Il punto è che non vi sono pene, se non pecuniarie, previste per chi danneggia un’opera d’arte: le pene detentive non sono contemplate, una leggera multa, una pacca sulla spalla e l’incidente si considererà risolto, tanto più che i frammenti delle orecchie del tritone sono stati ritrovati e quindi sarà possibile procedere al restauro.

Ma è giusto tutto questo? E’ giusto che qualcuno si possa permettere di danneggiare un’opera d’arte impunemente e ne esca praticamente pulito? Ci è stata data in dotazione una città che raggruppa in sé, DA SOLA, un patrimonio artistico sbalorditivo e noi che facciamo?! Una multa, nulla più, per chi ce la rovina.

Il sindaco di Roma, Alemanno, ha dichiarato che questo atto “costituisce un’offesa alla città di Roma”. Ciò che ci si potrebbe domandare è che cosa spinga una persona ad offendere un’opera d’arte ed una città intera; spesso si dice che la maggior parte degli atti vandalici siano effetto di malcontento e di noia profonda. Mi dispiace, mi dispiace per chi davvero si sente triste, scontento e persino annoiato. Ma io a questa storiella della noia e del malcontento ho smesso di credere già da un po’. Far passare un atto vandalico in nome della tristezza e della noia è il modo migliore per giustificarlo e, spesso, per non prendere provvedimenti adeguati. E’ vero, la tristezza è un potente motore delle azioni umane, ma è soprattutto motivo di crescita e sviluppo interiore; non possiamo dire forse lo stesso della noia? Le migliori menti dell’umanità si sono trovate nella posizione di stallo derivata dalla noia, ma ne sono uscite rinvigorite ed arricchite, pronte per nuove scoperte ed invenzioni. Poiché è evidente a chiunque che chi ha bersagliatola Fontanadel Moro non può ritenersi né sviluppato interiormente né tantomeno un’intelligenza superiore, è ugualmente chiaro che il problema di fondo è un altro. Il problema è il sasso.

Sembrerà stupido, ma tirare sassi a qualcosa significa fondamentalmente non accettare il suo modo di essere e quindi agire violentemente per cambiarlo; non è un’offesa alla città di Roma, ma all’essenza dell’arte in quanto tale, espressione di un’interiorità che va accettata senza pretendere che si adatti al nostro volere. Se quest’uomo è stato in grado di colpire con un sasso una fontana, nulla gli impedirà di colpire anche gli animali, altre opere d’arte, infine persone con un sasso. Perché punire aspramente chi colpisce animali e persone ma non chi colpisce opere d’arte?

Qualcuno potrà dire che animali e persone hanno una dignità che va rispettata. E forse non l’ha anche la nostra tradizione?

Il fatto è fresco di cronaca e di carta stampata, la ferita brucia ancora; ad ogni modo, datele tempo una settimana perché si sarà rimarginata perfettamente. Dopo la rabbia iniziale, cosa vogliamo fare di quest’uomo, che si è arrogato il diritto di mutilare un pezzo della nostra storia?

Anzitutto, potremmo proporre di far pagare per intero al nostro amico i lavori di restauro alla fontana. Non li ha? Pazienza, da qualche parte li troverà sicuramente. Nello stesso luogo in cui ha trovato l’ispirazione di commettere una carognata del genere.

Il problema reale è alla fonte di questo disgustoso episodio. In nome di cosa possiamo permetterci di non pensare e lasciar agire la violenza per noi? Che cosa spinge a bersagliare un’opera d’arte, non importa se con sassi o a martellate? Non è la noia né la tristezza a compiere questo miracolo di grettezza post-moderna; qui si tratta di ignoranza pura e semplice, la maleducazione che vuole travestirsi da superiorità. A questo punto sopraggiunge una grande tristezza (questa reale, però…); anzitutto per la povera fontana, bersaglio di un gesto stupido e volgare. Ma in fondo anche per quest’uomo. Nessuno ha avuto la pazienza di insegnargli a pensare, nessuno gli ha mai raccontato quanto tempo, sudore e costanza occorrono per realizzare opere di questa portata ed infine nessuno gli ha mai insegnato che nella vita non sono utili solo la forza e la prepotenza, ma anche un pizzico di rispetto e di umiltà, che non guastano mai. Anche un po’ di cervello, se volessimo proprio esagerare. Ma questo interessante signore deve esserne rimasto sprovvisto.    

Silvia

Pubblicato da: lefontaneromane | 18 dicembre 2010

Fontane…ghiacciate!

 Da tantissimo tempo, ormai, si sente ripetere che la neve a Roma costituisca un evento incredibile, irripetibile, una specie di miraggio del quale si favoleggia ed al quale si vorrebbe assistere da tempo immemore. Come l’apparizione del Mostro di Loch Ness.

Ad ogni modo, è un fatto assodato che sotto la neve tutto sia diverso, ogni cosa assume connotati insoliti ed affascinanti ed il mondo come lo conosciamo si presenta ai nostri occhi sotto panni straordinari. Cambiano i colori, le ombre, le sfumature, persino la consistenza delle cose; e si sa, un mondo diverso è sempre irresistibile per chiunque, soprattutto per i bambini, che associano alla neve l’opportunità di divertirsi, di giocare, di osservare almeno per un po’, come detto sopra, un mondo a loro sconosciuto.

 Così come la neve è diventata argomento mitologico di cui parlare in toni epici, la neve a Roma è entrata con tutti gli onori nella categoria dei miraggi. O delle storie che i nonni raccontano ai nipotini per farli addormentare.

Anni in cui le temperature hanno fatto rabbrividire persino la Siberia, nel Nord-Italia si scatenavano tempeste di neve, le autostrade erano bloccate, le città ed i mezzi di trasporto usciti da qualsiasi logica; insomma, la neve furoreggiava per tutta la lunghezza e l’ampiezza del territorio italiano… ed il cielo su Roma rimaneva testardamente e beffardamente blu. Al massimo, volendo concedere un filo di speranza, grigio; ma tutte quelle nuvole, verso cui si alzavano speranzosi tanti nasi, non erano affatto latrici di neve. Proprio per nulla. Piuttosto, di tanti splendidi, fastidiosi e gelidi scrosci di pioggia. Ed i nasi dei sognatori delusi tornavano giù. Fino al 12 Febbraio 2010.

Dopo tanti anni, Roma finalmente ritrova la neve; non ne cade moltissima, ma quanta basta per far sognare i bambini e per far di nuovo alzare al cielo tanti occhi incantati. Quale magia, quale sortilegio è finalmente in grado di portare la neve su Roma?! E’ vero, dura neanche una mattinata, le strade non hanno neppure il tempo di ghiacciarsi…ma indiscutibilmente una grigia giornata di Febbraio comune, assolutamente e tragicamente ordinaria, assume improvvisamente una luce nuova.

E poi?

Poi, dato che le leggende sono dure a tramontare, da quel 12 Febbraio torniamo tutti a parlare della neve a Roma come di un miracolo. Memoria corta? Viaggio alle Bahamas proprio il 12 Febbraio?

La nostra splendida città, comunque, decide di darci una possibilità per rinfrescarci la memoria.

Ed ecco che il 17 Dicembre 2010 cade la neve su Roma.

Questa neve è meno tenace della precedente: dura per un paio d’ore, a malapena attecchisce sui tetti. Ma dalla sua ha una preparazione molto più ostinata; altrimenti non si spiegherebbe il motivo per cui, la mattina del 17 Dicembre, l’acqua dei nostri nasoni e delle fontane fosse ghiacciata.

Il più spettacolare esempio di come ghiaccio ed arte possano efficacemente convivere, a beneficio dei Romani a bocca aperta e dei turisti armati di macchinette e fotocamere fino ai denti, è la Fontana delle Naiadi in Piazza Esedra.

Ieri mattina, tutte le statue erano orlate di un pizzo algido e fragile a cui si aggiungeva una spruzzatina di neve per completare l’effetto scenico: ogni cosa, ogni singolo movimento era congelato nella fusione tra marmo e ghiaccio, una miscela incredibile e potente, grazie alla quale una sola, singola fontana ha calamitato flash e commenti entusiastici a non finire.

Incanto destinato ad avere breve durata: una fastidiosa e pertinace pioggia si è accuratamente preoccupata di lavare via tutto ciò che rimaneva dell’incanto, come un moderno orologio inopportuno al gran ballo di Cenerentola. Basta un rintocco, nel nostro caso una goccia, perché l’incanto svanisca e tutto torni alla normalità.

Ma ora possiamo stare tranquilli. Come nelle migliori favole, sappiamo che l’incanto è destinato a ripetersi; Roma ed il clima attuale ci hanno provato che la neve nella caput mundi è possibile, persino due volte in un anno. Abbiamo dato una grandissima prova di pazienza, noi, generazioni in attesa dell’epocale nevicata su Roma; finalmente siamo stati ripagati delle nostre attese con un bellissimo spettacolo di fronte a cui restare sbalorditi.

E poiché, come si dice, “non c’è due senza tre”…potremmo attendere la terza nevicata su Roma del 2010? Far impallidire (dato il contesto, anche dal freddo…) i nostri vicini montani con altre fontane ghiacciate? In fondo, c’è tempo fino al 31 Dicembre e poi… c’è sempre il 2011 per sognare! 🙂

 Silvia

Pubblicato da: lefontaneromane | 25 giugno 2010

ASTRAMBIENTE presenta: L’elefantino di Bernini

In Piazza della Minerva, sul lato destro del Pantheon, compare una piccola figura un po’ statica. Un elefantino saluta il nostro arrivo sollevando la proboscide, appesantito dal peso dell’obelisco che tiene sul dorso. Nulla ci farebbe pensare ad un’opera del Bernini, se non forse lo sguardo allegro e quasi furbesco dell’animale; che Bernini riesca anche a trasfondere la propria anima nelle sculture che realizza…? Altamente probabile, pensiamo mentre ricambiamo lo sguardo dell’elefantino.

 Verso la fine del 1655, nel giardino del convento domenicano che si affaccia sulla Piazza, venne alla luce un obelisco di granito rosa, alto più di cinque metri e riccamente istoriato di geroglifici.

Il frate gesuita Atanasius Kircher, storico collaboratore e “compagno” di studi del Bernini, si recò immediatamente sul posto per decifrare i geroglifici; traduzione, questa, che il padre gesuita affidò poco dopo alle stampe, dedicandola a Papa Alessandro VII. Forse per ricambiare la cortesia del padre gesuita, Papa Alessandro VII affidò a Kircher l’incarico dell’estrazione e di un nuovo innalzamento dell’obelisco. Il passo che portò a Bernini fu certamente breve.

 Inizialmente, per sorreggere il pesante ed alto obelisco, Bernini aveva pensato ad un gigante; tuttavia, il suo progetto non incontrò i favori dei committenti, nella fattispecie i frati domenicani ed in particolar modo Padre Paglia, Abate del convento prospiciente la piazza. La scelta del soggetto destinato a sorreggere l’obelisco fu influenzata da un’opera del frate domenicano Francesco Colonna, la Hypnorotomachia Poliphili (la battaglia d’amore in sogno di Polifilo), dove il protagonista, nel corso di una bizzarra avventura onirica, incontrava un elefante con un obelisco sul dorso.

 

Rassegnato, Bernini realizzò l’elefantino commisionatogli; i domenicani, però, evidentemente ostili al Bernini, rimproverarono all’opera di essere appoggiata sul basamento marmoreo solo con le zampe e dunque di avere uno spazio vuoto che avrebbe potuto causare un rovinoso ed umiliante crollo (“niuno perpendicolo di pondo non debi sotto a sé habere aire overamente vacuo, perché essendo intervacuo non è solido né durabile”). Inutile perfino l’evidenza della grotta “vuota” che tuttora sostiene l’obelisco della Fontana dei Quattro Fiumi; non era la prima volta che Bernini lavorava, per così dire, nel vuoto. Sempre più rassegnato e punto nell’orgoglio di scultore, Bernini cercò di mascherare il cubo di marmo che ancora sorregge l’elefantino con una pesante ed elaborata gualdrappa di marmo; l’opera sembra quasi estranea alla produzione berniniana.

                                                                                                                       

Dopo il suo innalzamento nella piazza, avvenuto l’11 luglio 1667 (nel frattempo il papa era morto da una quarantina di giorni), la gente cominciò a chiamarla il Porcino della Minerva. In seguito il nome mutò in Pulcino forse per un semplice motivo fonetico: persosi col passare del tempo il ricordo del fatto, porcino fu probabilmente confuso con purcino, che è appunto la forma dialettale romana per pulcino.

 

 Per vendicarsi delle tante critiche a cui era stata sottoposta la propria opera, Bernini sceglie di posizionare l’elefantino in modo che rivolga il dorso all’entrata del convento domenicano; non solo, dopo quella che sembra un’evidente mancanza di rispetto nei confronti dei domenicani, il nostro caustico Bernini fa spostare la coda dell’elefante in un irriverente e divertito saluto ai domenicani.

                                                                                                          

 Oltre al significato religioso, secondo cui l’obelisco rappresenta l’antica saggezza e l’elefante la pietà e l’equilibrio della mente, Bernini, da genio come lo conosciamo, aggiunge la propria personale firma all’opera. Non fa nulla di simile all’irosa firma martellata da Michelangelo alla Pietà, quando essa non fu riconosciuta come sua opera; fa qualcosa di più. Il suo nome non è scritto sul marmo, la sua mano non perfettamente riconoscibile nelle linee dell’opera. La vera firma che Bernini appone all’opera è lo sguardo innocente dell’elefante contrapposto al suo irrispettoso saluto ai domenicani, l’intelligenza contrapposta alla grettezza, la furbizia all’invidia. Bernini studia, si informa, si guarda intorno; è una mente vorace, affamata di studio e di sapere, è proprio la robusta mente necessaria per  sorreggere una solida sapienza di cui parla l’elefantino; è solo che i domenicani non avevano fatto i conti con questo aspetto della personalità del  Bernini, si erano limitati a criticarlo, opponendo il potere, il proprio tenere il coltello dalla parte del manico alla sua estrosità artistica. Ma Bernini non si fa sottomettere da queste critiche, dall’ignoranza e dalla grettezza che troppo spesso chi ha il potere ha opposto ai geni; e risponde a tono, con il proprio tono ai frati domenicani, ricordandoci che non è sempre giusto ribellarsi con la violenza ai propri oppositori. A volte basta la coda di un elefantino per provocare un’esplosione più forte di tante bombe e tante armi. Quale migliore arma del proprio cervello?                                                                 

Silvia

  

Pubblicato da: lefontaneromane | 24 giugno 2010

ASTRAMBIENTE presenta: Palazzo Barberini

Fu costruito intorno al 1620 da Francesco Barberini, nipote del potente cardinale Maffeo Barberini, che divenne papa col nome di Urbano VIII. L’edificio, terminato nel 1633, è opera di tre architetti eccezionali: il Maderno, il Borromini ed il Bernini. Il progetto iniziale – del Maderno – prevedeva una costruzione molto più semplice dell’attuale, ma in corso d’opera prevalsero altre idee: con la nomina di Maffeo al soglio papale (1623), l’edificio fu destinato ad assumere il carattere di Palazzo-villa, in cui le funzioni di abitazione e rappresentanza della famiglia papale si univano a quelle della villa urbana, dotata di vasti giardini e prospettive aperte, secondo lo schema che si era affermato con la Villa Farnesina. Il Maderno morì nel 1629 e il Borromini – che aveva lavorato ad alcune parti del progetto – sperava nella nomina a direttore dei lavori, ma fu scavalcato dal ben più affermato Bernini. La delusione di Borromini fu notevole e si trasformò in astio nei confronti del più fortunato concorrente. Il palazzo, acquistato dallo Stato italiano nel 1949, ospita una parte della Galleria Nazionale d’Arte Antica. I 1500 dipinti e 2000 oggetti d’arte che la compongono, provengono dalle più importanti collezioni romane. La Galleria contiene – tra le altre – opere di Andrea del Sarto, Caravaggio, Filippino Lippi, Lorenzo Lotto, Perugino, Poussin, Tiepolo, Tiziano,Tintoretto, Giulio Romano. Famosissimi sono i dipinti della Fornarina, di Raffaello, ed il ritratto di Enrico VIII, di Holbein. La più solenne sala di rappresentanza, che degnamente celebra il fasto dei Barberini, è il grande salone affrescato da Pietro da Cortona, capolavoro di pittura barocca.

Pubblicato da: lefontaneromane | 22 giugno 2010

ASTRAMBIENTE presenta “Bernini: la Verità svelata dal Tempo”

Tanti pensieri e moltissime domande mi sono venute in mente dopo aver visto “La verità svelata dal tempo” di Gian Lorenzo Bernini. Il maestro comincia a scolpirla nel 1645 in un momento di personale difficoltà, dovuto alle accuse contro il suo operato a San Pietro. Come spesso accade, dai momenti difficili nascono opere meravigliose, ed infatti proprio in quel periodo Bernini dà alla luce “La verità svelata dal tempo”, opera incompleta, in cui figura solo la verità. La donna tiene in mano un sole e ha sotto il piede il globo terrestre. Si pensa che, l’idea originaria per questa scultura fosse una rivendicazione personale del Bernini per le umiliazioni subite, ad indicare che con il tempo, la verità sarebbe emersa e gli avrebbe dato ragione. La verità si svela con il tempo.

Ma perchè la Verità ride? La risposta a questa domanda non è certa, forse il sorriso della donna è un sorriso ironico lanciato a coloro che lo accusavano o forse, dietro, c’è qualcosa di più grande e universale. La spiegazione concreta e logica dell’opera, citata in alto, non farebbe una piega ma non bisogna dimenticare che Bernini è stato anche il protagonista di “Angeli e Demoni”di Dan Brown che racconta che il maestro era un illuminato, quindi è bello pensare che dietro a questa spiegazione ce ne sia un’altra meno reale e più affascinante. Forse Bernini conosceva la Verità con la v maiuscola? Oppure la Verità è rintracciabile attraverso l’arte e i suoi simboli? E’ questo il vero messaggio dell’opera?

Ella sorride, perchè è bella, limpida, non corrotta, è una donna, madre della Terra, anche se la schiaccia, forse ad indicarci che non potremo mai scoprirla veramente ma solo intuirla, ed il sole, nella sua mano, che è nutrimento dell’uomo e del mondo che splende più lontano e più isolato ed infine la donna, la Verità che è nuda e si mostra nella sua originaria purezza, senza timore, formosa e gioviale.

Bernini muore prima di portare a termine il Tempo, forse il destino ha voluto lasciare un simbolo anche nell’incompletezza dell’opera, la Verità non si svelerà con il tempo, le due cose, probabilmente sono scisse, la Verità non è terrena, non fa parte di quel mondo che lei, sorridendo, tiene sotto il piede.

La domanda che sorge spontanea è: Bernini ha scolpito quest’opera grazie alla sua immaginazione oppure, come ci ha raccontato Dan Brown, perchè era un illuminato e forse, lui la Verità la conosceva veramente?

Come io ho dato la mia modesta interpretazione, così voi guardando un’opera potrete venire ispirati. In fin dei conti, quello che vogliono fare gli artisti, probabilmente, è proprio quello di ispirare lo spettatore a cose grandi o piccole che siano, perchè l’ispirazione è figlia di un’emozione.

L’indifferenza di chi guarda un’opera non è certo ciò che vogliono gli artisti.

Selene

Pubblicato da: lefontaneromane | 22 giugno 2010

ASTRAMBIENTE presenta “Pasquino, la statua che parla”

La piazza di Pasquino, prende il nome dall’omonima statua. Essa raffigura un frammento di un’opera in stile ellenistico, priva degli arti e danneggiata nel volto. Diverse sono le attribuzioni della stessa: alcuni sostengono che faccia parte di un gruppo di statue dello scultore Antigonos che raffigura Menelao che sorregge Patroclo morente, altri ritengono sia Aiace con il corpo di Achille oppure Ercole che combatte con i centauri. In ogni caso, la statua fu ritrovata nel 1501 grazie agli scavi volti alla pavimentazione stradale e alla ristrutturazione del Palazzo Orsini che vedeva artisti come il Bramante e veniva eseguita per conto del cardinale Oliviero Carafa che insistette per salvare l’opera, ritenuta da altri di poco valore. Essa fu adagiata dove si trova ancora oggi. La statua divenne presto, però, fonte di preoccupazione per il potere di Roma, dovuta ai continui biglietti di satira prevalentemente politica, affissi al collo e ai piedi della statua che le garantirono la fama di statua parlante. Questi biglietti potevano essere letti da tutti, la mattina presto, prima che la polizia li togliesse. Creando scompiglio e fastidio ai rappresentanti del potere, la statua rischò di essere eliminata, infatti Adriano VI durante il suo pontificato ordinò di gettarla nel Tevere anche se i cardinali riuscirono a dissuaderlo da questa idea, intravedendo un attacco diretto al potere. Pasquino, venne così, vigilato giorno e notte dalle guardie, ma le pasquinate non si fermarono ma anzi trovarono terreno fertile in altre statue. Nemmeno con l’editto della pena di morte, i biglietti diminuirono. 

Per vedere la fine delle pasquinate bisogna aspettare la fine del potere temporale, con la breccia di Porta Pia che garantiva ai romani nuovi tipi di rappresentanti e nuovi tipi di stato. Solo nel 1938 con la visita di Hitler a Roma, alcune pasquinate si riaffacciano per far notare la vuota pomposità degli allestimenti scenografici.

L’origine del nome, rimane tuttora ignoto, alcuni lo attribuiscono ad un calzolaio o a un fabbro o ad un sarto oppure a un barbiere. Teofilo Folengo ritiene che Pasquino fosse il ristoratore della piazza, altri recentemente pensano che egli fu un docente di grammatica latina, i cui studenti, dopo aver notato una certa somiglianza con la statua, attaccarono i primi biglietti in segno di goliardia. Un’altra versione è quella che si rifà ad una novella di Boccaccio in cui il protagonista muore dopo aver mangiato della salvia, erba salutare, ad indicare chi viene danneggiato dalle cose ritenute buone.

Selene

Pubblicato da: lefontaneromane | 22 giugno 2010

ASTRAMBIENTE presenta “Bernini e Borromini: colleghi rivali”

Due uomini che tra odio e amore impreziosirono Roma, furono di certo, Borromini e Bernini, due geni totalmente diversi tra di loro: Bernini, uomo di mondo, affabile ed estroverso, Borromini risevato e timido.

 Pensate, forse che tra artisti di questo calibro non poteva esistere rivalità? Pensate che solo oggi i colleghi siano rivali? 

Borromini, dopo essere giunto a Roma, si aspetta di essere nominato dalle fabbriche portate avanti da Maderno, architetto svizzero-italiano, ma i suoi sogni vengono presto infranti poiché quella nomina viene data a Gian Lorenzo Bernini, che lo conferma primo suo assistente, rendendo materiali le sue idee e i suoi disegni; infatti il Borromini esegue i disegni nei marmi alla base del baldacchino di San Pietro, poi gli otto stemmi di Urbano VIII Barberini, caratterizzati dalle famose tre api e dalla raffigurazione per sette volte del viso di una donna gravida che culmina nella testa del bambino che nasce, nell’ultimo stemma. 

 
 
 

Francesco Borromini

Finisce la collaborazione ed inizia la lotta per la commissione dei lavori. Lo scontro reale inizia, però, nel palazzo di Propaganda Fide. Bernini nel 1634 realizza la cappella ovale dei Re Magi e dopo 10 anni tira su la facciata, purtroppo però, tutto questo ad Alessandro VII non piace, ciò permette al Borromini di levare al suo rivale l’incarico.

Gian Lorenzo Bernini

Lo scontro ha inizio. Borromini, soddisfattissimo, fa lavorare tutta una notte i suoi muratori, per ornare la finestra d’angolo del palazzo con due grosse orecchie d’asino, simbolo dell’incapacità di Bernini, poiché la sua casa-studio si trovava proprio davanti al palazzo Propaganda Fide. Bernini, non esita a vendicarsi e la notte dopo scalpella da solo un enorme mensola del cornicione del suo palazzo dandogli la forma di un pene. Le orecchie e il pene rimarranno a lungo nei due palazzi, simboli di uno scontro artistico in atto, finchè le due composizione non vengono “sformate” per garantire più decenza ai due palazzi. Un’altra protagonista dello scontro è Piazza Navona: la fontana dei quattro fiumi di Bernini e la chiesa di S.Agnese del Borromini. Negli attegiamenti delle statue che rappresentano il Nilo e il Rio della Plata, della fontana, si riconosce un senso di disprezzo e orrore nei confronti della chiesa antistante: il Nilo le dà le spalle e si copre il viso, il Rio della Plata alza il braccio sinistro quasi ad evitare un imminente crollo della chiesa e ad indicare alla statua di Santa Agnese di fare attenzione. Ciò che fa credere che questo sia solo una simpatica storia è il fatto che la costruzione della chiesa iniziò nel 1652 per finire nel 1657, mentre la fontana era stata progettata nel 1649 e fu inaugurata due anni dopo.
Selene
Pubblicato da: lefontaneromane | 22 giugno 2010

ASTRAMBIENTE PRESENTA: L’APE NELL’ARTE NEL BERNINI

Si deve al genio di Gian Lorenzo Bernini (Napoli1598 – Roma 1680) la realizzazione di gran parte delle opere che nel corso del Seicento conferirono quel volto alla città di Roma che tanto piacque ai contemporanei e che affascina i visitatori ancora tutt’oggi. In possesso di uno spiccato talento artistico, Bernini divenne con rapida ascesa il protagonista del rinnovamento artistico di Roma voluto dalla chiesa. Fu proprio Papa Urbano VIII a consacrare Bernini artista ufficiale della corte pontificia e in particolare della casa Barberini che legò il proprio nome a tante realizzazioni del grande maestro. Urbano VIII fu un papa di vasta cultura umanistica, amante dell’artee della letteratura. Seguendo la terminologia araldica il suo stemma può essere così descritto: Arma: d’azzurro a tre api montanti d’oro poste 2, 1.
Le tre api furono scelte come emblema di operosità, da Urbano VIII. Ecco dunque la presenza delle api “barberiane” in molte delle opere commissionate dal Bernini proprio dall’illustre casato.

BALDACCHINO DI SAN PIETRO
            La prima grande commissione pubblica che Gian Lorenzo Bernini ricevette da Papa Urbano VIII fu quella di realizzare il baldacchino per l’altare maggiore della Basilica di San Pietro. Quest’opera, monumento architettonico barocco fu inaugurato nel giugno del 1633 dallo stesso papa. L’esecuzione dell’opera richiese molto tempo, circa 10 anni. Il baldacchino si sviluppa secondo una pianta quadrata ed è sorretto da 4 colonne tortili. Durante la realizzazione del baldacchino Bernini arricchì ulteriormente le colonne già ornate con puttini e api con del fogliame. Bernini volle posizionare ai piedi di una colonna una grande lucertola per arricchire l’opera di connotazione simbolica. Infatti, lo sguardo della lucertola è incantato in alto verso la luce e trova in esso giovamento proprio come l’animo umano resta in contemplazione e prova benessere nell’ammirare la luce divina. Sui basamenti marmorei delle 4 colonne è riportato lo stemma del Casato dei Barberini. Le tre api sono anche nel drappeggio alla sommità del baldacchino.

FONTANA DEL TRITONE
Della serie di fontane a cui si dedicò il maestro con passione, quella del Tritone di Piazza Barberini, interamente realizzata in travertino è ritenuta una delle più belle di Roma. Fra le code dei delfini che sorreggono la conchiglia sulla quale si accovaccia il tritone, il Bernini ha posizionato uno stemma dei Barberini per lato, la tiara e le chivi, simboli pontifici di Urbano VIII, committente dell’opera. Il tritone che soffia con impeto in una conchiglia fa uscire un getto d’acqua che crea una coreografia di grande effetto. La fontana fu restaurata nel 1932 e nel 1990.

FONTANA DELLA API
Subito dopo dell’esecuzione della Fontana del Tritone, a Bernini fu commissionata la costruzione di una fontana per abbeverare i cavalli come era consuetudine fare accanto ad una monumentale. Inizialmente collocata all’angolo di Piazza Barberini con Via Sistina, la Fontana delle Api consiste in un’enorme conchiglia con le valve aperte, quella superiore che aderisce alla parete di Palazzo Soderini, quella inferiore che funge da vasca di raccolta. Sulla cerniera di raccordo tra le due valve ci sono tre api barberiane disposte simmetricamente che sormontano le uscite dell’acqua. L’opera nel 1687 fu smontata e solo più tardi venne ricomposta all’imbocco di Via Veneto, sua attuale collocazione.

FONTANA DELLA BARCACCIA
Una delle più belle piazze di Roma è
Piazza di Spagna. Essa è caratterizzata dall’imponente scalinata e dall’antica fontana detta la Barcaccia, collocata ai suoi piedi. La fontana pur essendo opera di Pietro Bernini (Sesto Fiorentino 1562 – Roma 1629) viene qui ricordata in quanto le decorazioni a prua e a poppa sono opere di suo figlio Gian Lorenzo. La Barcaccia,è frutto della genialità di Pietro Bernini che sfruttò la raffigurazione di una barca in apparente pericolo di affondare per eliminare il problema della bassa pressione che alimentava la fontana. Le api e la chiavi che decorano la fontana sono i simboli della famiglia Barberini e di Urbano VIII, committente dell’opera.

MONUMENTO SEPOLCRALE DI PAPA URBANO VIII (BASILICA DI SAN PIETRO)
Una nicchia della Basilica di San pietro ospita un grande esempio di architettura funeraria: il monumento sepolcrale del più grande mecenate di Gian Lorenzo Bernini, il più volte citato Maffeo Barberini, papa con il nome di Urbano VIII. Gian Lorenzo fu chiamato a realizzarlo dallo stesso pontefice ma il lavoro a questo complesso impiegnò l’artista per circa un ventennio, dal 1627 al 1647. Il monumento è costituito dal sarcofago, dall’epigrafe dedicatoria e due statue allegoriche in marmo bianco( la Carità e la Giustizia). La Giustizia è con lo sguardo fisso in cielo e con il volto appoggiato alla mano in atteggiamento malinconico, mentre con l’altra mano sorregge una grande spada, la cui elsa è decorata da api. Dall’alto, domina la statua bronzea di Urbano VIII rivestito dagli abiti pontificali, mentre su tutto il sepolcro sono collocate api di bronzo.

Pubblicato da: lefontaneromane | 20 giugno 2010

ASTRAMBIENTE presenta: Misteri a Roma

La città eterna, la caput mundi, come preferiamo chiamarla, è da sempre stata oggetto di misteri e fatti oscuri. La sua nascita ed il suo effettivo fondatore sono avvolte nel mistero, l’incredibile potenza ed influenza che ha esercitato ed esercita nel mondo, le profezie sulla sua fine e sulla conseguente fine del mondo: cos’è, o meglio, chi è Roma per avere nelle proprie mani addirittura il destino del mondo?

Secondo la mitologia, la fondazione di Roma fu voluta dagli dei, che “inviarono” sul posto il troiano Enea; non fu comunque una divinità qualsiasi a volere Roma, ma Venere, madre di Enea. Dunque, Roma nasce con la protezione della dea dell’amore, che verrà anche resa soggetto di alcune fontane, ma con il nome mutato: Dea Roma, a mostrare quanto fosse forte il legame tra la dea dell’amore ed il popolo romano.

    

 

Se fin dalla sua nascita Roma si pone come un mistero insoluto, non deve stupire nessuno il fatto che molti registi abbiano deciso di ambientare i propri film nella città eterna e che anzi questi siano diventati veri e propri cult per molte generazioni.

Mettiamo insieme i vicoli più oscuri e stretti di Roma, la nebbiolina che alla sera le fa da comodo scialle, gli alti campanili illuminati da fiochi lumi; agitiamo bene ed avremo Il segno del comando, sceneggiato di mistero ambientato a Roma e girato nel quartiere di Trastevere negli anni ’70.

 

Il professore di letteratura inglese, Edward Forster (interpretato dall’attore di teatro Ugo Pagliai), viene chiamato a Roma per alcuni studi realizzati sul periodo romano di Lord Byron e nello specifico su un passo in cui Byron accennava ad una piazza con fontana; piazza, questa, che nella realtà topografica di Roma non esiste affatto e che per anni ha ingannato fan dello sceneggiato, alla ricerca della fantomatica piazza. Il professor Forster giunge a Roma per tenere una conferenza, ma viene suo malgrado coinvolto in una ricerca spasmodica del cosiddetto “segno del comando”, tra sedute spiritiche ed omicidi, ma soprattutto accompagnato da una presenza femminile molto misteriosa ed evanescente. Questa presenza, a cui l’attrice Carla Gravina presta corpo e voce, è forse la parte più interessante dello sceneggiato, poiché sembra incarnare la vera essenza di Roma: sorridente ma mai divertita, abbondante ma mai eccessiva, sempre oscillante tra la chiarezza della propria bellezza e l’ombrosità dei propri movimenti, appare e scompare nei momenti fondamentali della storia per chiarire o complicare ulteriormente la già annodata matassa dei fatti.

Edward Forster è molto affascinato da questa misteriosa donna, tanto che nella prima parte della storia compirà delle lunghe ricerche per trovarla ed identificarla, senza, ovviamente, riuscirci. Saprà solo il suo nome: Lucia. Come incasellare una presenza così evanescente in un nome e cognome? Come incasellare Roma nella riduttiva definizione di città? Ormai dovremmo averlo capito bene, Roma è molto più di questo; la città in cui il professor Forster si aggira non è la Roma in cui andiamo a passeggio, facciamo la spesa, andiamo di fretta. È una città notturna, che dorme di un sonno finto, in realtà sempre attiva e vigile, pronta a scattare al minimo movimento; e se è vero che la risoluzione in bianco e nero utilizzata dal regista e la lentezza nell’avvicendamento delle scene (forse derivante anche dalla preparazione teatrale dell’attore protagonista, che, fissando lo schermo per lunghi secondi, rende ancora più intense le scene) aggiungono quell’indispensabile quid di mistero ad una storia eminentemente di mistero, è altrettanto vero che, di per sé, Roma è abbastanza poliedrica da non aver bisogno di filtri che creino effetti di mistero.

   

Perfetto scenario di storie di mistero, di storie di avventura, di storie d’amore…anche il professor Forster si renderà conto che esiste un mondo intero dietro il segno del comando (medaglione che la donna misteriosa gli affida); dietro l’immediatamente constatabile, dietro Via Margutta (via centrale di Roma, dove inizia la storia), il vero mistero e lo scopo da raggiungere non è solo il potere assoluto ed incontrastato, ma capire e controllare Roma.

Spengiamo la televisione e guardiamo fuori dalla finestra; usciamo di casa, giriamo per le vie centrali di Roma e chiediamocelo anche noi: siamo riusciti nell’obiettivo imposto al professor Forster ?

Conosceremo mai fino in fondo Roma?     

 

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